
Sono ormai passati più di otto mesi dall’inizio dell’invasione (perché di questo si tratta) dell’Ucraina da parte della Federazione Russa.
Decine, se non centinaia di migliaia le vittime da ambo le parti da quel 24 febbraio 2022. Allora, dai palazzi di governo ai tavolini dei bar, era subito partita una rissa di opinioni e contro-opinioni su che cosa fare o non fare, che cosa poter dire e non poter dire.
E così, esattamente come nel 1914 e nel 1939, ogni canale di comunicazione si è infarcito delle più variopinte forme di “interventisti” e di “pacifisti”. Per mesi, in tutte le piazze europee sono state all’ordine del giorno miriadi di manifestazioni contro e pro eventuali azioni di guerra – da aggiungere alle sanzioni economiche – nei confronti della Federazione Russa (una eventuale “no-fly zone” posta dall’Alleanza Atlantica sarebbe un esplicito atto di guerra).
Oggi, scongiurata la possibilità che i russi occupassero Kiev e rovesciassero il governo Zelensky, si combatte furiosamente in Ucraina, specialmente a sud, nella regione di Kherson, e a oriente nel Donbass (dilaniato da battaglie e bombardamenti fin dal 2014, con l’inizio della guerra civile).
Questo conflitto è ancora oggetto di discussione. Sabato 5 novembre si sono svolte ben due manifestazioni per la pace, una a Milano e l’altra a Roma. Nella capitale più di 600 fra associazioni e organizzazioni, un totale di centomila persone hanno manifestato per chiedere che lo scempio della guerra finisca una volta per tutte. E non solo quella in Ucraina, di cui ci si ricorda facilmente perché è in Europa, ma di tutte le guerre, anche quelle dimenticate in Africa e nel Medio Oriente. Perché quando ci si dimentica della guerra, inevitabilmente ci si dimentica pure della pace.

Questa guerra in particolare però ci fa paura. Viviamo tutti, governanti e cittadini, ricchi e poveri, in un clima di quieto terrore: è dalla crisi di Cuba (1963) che il rischio di una terza guerra mondiale (e quindi atomica) non è così concreto.
Nessuno sembra voler cedere e i toni si fanno di giorno in giorno più minacciosi. Papa Francesco al “Forum per il Dialogo” in Bahrein ha parlato di “uno scenario drammaticamente infantile” perché l’uomo invece di prendersi cura del prossimo e del mondo, “gioca con il fuoco, con missili e bombe, con armi che provocano pianto e morte, ricoprendo la casa comune di cenere e odio”.
“Chiedere pace non significa dimenticare che c’è un aggressore e un aggredito”, scrive monsignor Matteo Zuppi, cardinale e presidente della CEI, in una lettera aperta indirizzata a tutti coloro che ancora vogliono manifestare e pubblicata su “Avvenire” il 3 novembre, ma, tenuto conto anche di che cosa si rischia con un escalation nucleare, “chi lotta per la pace è realista, anzi è il vero realista perché sa che non c’è futuro se non insieme”.
Un compromesso giusto, equilibrato, che tenga più in considerazione le vite umane che i chilometri quadrati di terra, è questo che la Chiesa chiede, nelle parole e nella preghiera. Ma se manca un’autentica, limpida volontà di accordo e di confronto, se manca nel cuore il sano timore di perdere la Vita e perderla per sempre, ha ancora senso parlare di pace?
E basterebbe svuotare il mondo intero da ogni tipo di arma affinché l’uomo trovi la vera pace?