
Mistero non è inteso qui come sinonimo di sconosciuto, o di ciò di cui non sappiamo niente, irraggiungibile.
Parliamo di mistero come di qualcosa di cui abbiamo esperienza e conoscenza, ma di cui non si riesce mai a dirne abbastanza; intendiamo qualcosa di cui potremmo parlare a lungo, consapevoli di non esaurirne la profondità. Ad esempio, mistero è che tutto esista invece di non esistere nulla; mistero è la nostra esistenza, che ci vede eternamente e universalmente unici e irripetibili, con un proprio destino; mistero sono i figli; mistero è l’amicizia; mistero è la libertà con la quale potremmo negare perfino l’evidenza; mistero è la fragilità che ci portiamo addosso insieme alla grandezza e alla potenza dei desideri infiniti; mistero è la ragione che si accende di fronte all’ignoto, mentre la ripetitività e l’abitudine la stanca e l’addormenta; mistero è che ci si innamori di qualcuno o di qualcosa; mistero è che per natura, spontaneamente, ci chiediamo il perché ultimo delle cose.
Di seguito offriamo alcuni testi utili per una lettura e riflessione personali.
Primo testo: un bellissimo brano della Bibbia che insegna a guardare la grandezza contenuta nella piccolezza dell’uomo.
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?
Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi;
gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare. (Sal 8).
Secondo testo: dalle Upanishad.
“Questa mia anima dentro al cuore è più piccola d’un grano di riso o d’orzo o di sesamo o di miglio o del nucleo d’un grano di miglio. Questa mia anima dentro al mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo, più grande dei mondi. Fonte di ogni attività, di ogni desiderio, di ogni odore, di ogni sapore, comprendente tutto l’universo, muta, indifferente, questa è la mia anima dentro il cuore, questo è il Brahman”.
Terzo testo: in questo brano famoso tratto dai “Pensieri”, B. Pascal coglie la grandezza dell’uomo, paragonando la sua relativa piccolezza all’immensità dell’universo:

104 – Canna pensante.
Non è nello spazio che devo cercare la mia dignità, ma nell’ordine dei miei pensieri. Non avrei alcuna superiorità possedendo terre. Nello spazio, l’universo mi comprende e m’inghiotte come un punto; nel pensiero, io lo comprendo.
105 – Ciò che fa grande la grandezza umana è che si riconosce miserabile; un albero non si riconosce miserabile. Riconoscersi miserabili significa dunque essere miserabili, ma riconoscersi miserabili significa essere grandi.
108 – La grandezza dell’uomo.
La grandezza dell’uomo è così evidente che si ricava perfino dalla sua miseria, perché quello che per gli animali è la natura, nell’uomo lo chiamiamo miseria; da ciò riconosciamo che, se oggi la sua natura è simile a quella degli animali, egli è decaduto da una natura migliore che un tempo era la sua.
Quarto testo: il dialogo del matto con Gelsomina nel film “La strada” di Federico Fellini; qualcuno l’ha definito come “il più prezioso di tutta la storia del cinema”. L’ingenua Gelsomina è stanca di vivere, perché le pare di non servire a niente. L’incontro con un acrobata, un po’ matto e un po’ filosofo, le svela invece il segreto della vita: tutto ha un senso, ogni vita serve a qualcosa.

Il matto: “Io sono ignorante, ma ho letto qualche libro. Tu ‘un ci crederai ma tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa! Ecco, prendi quel sasso lì per esempio.”
Gelsomina: “Quale?”
Il matto: “Questo… uno qualunque! Beh, anche questo serve a qualcosa, anche questo sassetto.”
Gelsomina: “E a cosa serve?”
Il matto: “Serve… Ma che ne so io! Se lo sapessi sai chi sarei?”
Gelsomina: “Chi?”
Il matto: “Il Padreterno, che sa tutto! Quando nasci, quando muori… e chi può saperlo? No, ‘un lo so a cosa serve questo sasso qui ma a qualcosa deve servire, perché se questo è inutile allora è inutile tutto. Anche le stelle. O almeno credo. E anche tu, anche tu servi a qualcosa, con la tu’ testa di carciofo.”
Quinto testo: tratto dalla parte conclusiva della Critica della ragion pratica di Immanuel Kant:
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.
La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata.
La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria.

Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale.
Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.